ETICA DEL DISCORSO
Si parte dal presupposto che “ogni
soggetto capace di parlare e di agire, quando entra in qualche
argomentazione per esaminare criticamente una pretesa ipotetica di
validità, deve affidarsi a presupposti dotati di contenuto
normativo.” Insomma, c'è un “già” di cui noi – i
soggettivisti – non tengono conto : già
nel momento in cui si risponde ad una critica, si è entrati in un
campo di discussione, di argomentazione, e dunque deve in qualche
modo presupporre, per poter essere compreso dagli altri e affinché
l'argomentazione sia sensata, delle regole trascendentali o
preteoretiche. Si deve, soprattutto, sottintendere il principio
di universalizzazione,
estensione dell'imperativo categorico kantiano. Questi principi, per
Habermas e Apel, sono tacitamente accettati.
Gli stessi parlano dell'etica del discorso come una “disposizione
istituzionale”1
necessaria per neutralizzare le influenze empiriche o emozionali nel
discorso.
Questo
p.d.U. è l'unico principio morale di cui si possa parlare, principio
non contenutistico e preteoretico, che non prende quindi parte
dell'argomentazione stessa ma la presuppone.
Si
tratta, senza dubbio, di un platonismo di ritorno, soprattutto quando
Apel la comunità ideale
che deve essere attuata, effettuata, da quella reale.
L'ambiguità
di questa teoria etica non può oscurare tuttavia la sua urgenza,
l'urgenza di un etica “planetaria” , che trascenda dal singolo
paese o dalla singola nazione. Pare evidente inoltre che, se si
arriva alla necessità di trattare una “macroetica”, il valore
dei rapporti internazionali e dei trattati politici è di fatto
screditato per la sua insufficienza. Fondamentale diviene non tanto
il “cosa devo fare?” ma “perché devo fare quel che è scritto
che debba fare?” ; una tavola di Comandamenti ci dice solo cosa
fare, non perché.
Sembra però che Apel e Habermas non rispondano esaustivamente a
questa nostra pretesa di senso ; d'altronde, se lo facessero, se ci
dessero in mano un “perché”, siamo certi che questo possa essere
accettato da tutti?
Se la
morale può esser vista come un “fare ciò che è scritto che io
debba fare”, se quindi il suo aspetto normativo è stato talvolta
accettato senza ulteriori pretese2
di senso e dunque si può parlare di un sistema di adattamento
dall'uomo alla norma, al contrario la morale kantiana – e di
conseguenza anche quella habermasiana – ribalta questa prospettiva
: è la norma che deve adattarsi all'uomo, è la norma che, per
essere tale, deve poter essere “accettata liberamente da tutti”.
Si
presentano, al lettore attento, molti dubbi :
- Come giustificare questa equivalenza tra teoria e prassi? Come dunque giustificare il passaggio da una teoria logico-semantica ad una teoria dell'azione?
- Nel momento in cui io discuto della teoria stessa e del principio di Universalizzazione, non nasce il problema “del terzo uomo”? Non sto presumendo la teoria stessa nell'argomentazione?
- Dov'è lo spazio per la malafede? Per l'inconscio? Le disposizioni individuali sono sempre trasparenti a se stesse?
- Dov'è lo spazio per la “devianza”?
Come
si può parlare di scelta “libera” quando l'argomentazione usata
da Habermas e Apel è proprio che noi non siamo liberi
di non argomentare? Il
diktat dell'etica del
discorso : non possiamo non partecipare alla discussione. Anche chi
si rifiuta cade in una contraddizione ineluttabile : “altrimenti,
dovrebbe cercare rifugio nel suicidio o in una grave malattia
mentale. In altre parole, non può sbarazzarsi della prassi
comunicativa quotidiana, nella quale è continuamente costretto
a prendere posizione con un <sì> o con un <no>”3...
Si
parla, per l'appunto, di una costrizione
a discutere ; in effetti non si può agire se non comunicativamente,
inserendosi inevitabilmente in una discussione.
Una
breve summa di questo tipo di ragionamento è : “Dal momento in cui
noi ci immettiamo in una discussione, e dal momento in cui una
discussione è tale se rispetta determinati assunti – quale, ad
esempio, quello di portare ad una conclusione – non è possibile
rispettare questi assunti se non comportandoci in una determinata
maniera.”
Ora,
il problema è che, per Habermas e Apel, questa maniera è esclusa
dalla discussione! Insomma, è “fuori discussione” che il
principio di ogni discussione sia (U), il Principio di
Universalizzazione proposto dagli stessi autori, in quanto questa
determinata maniera di comportarsi è, per loro, preteoretica e
quindi indiscutibile!
La
domanda che è appare qui ovvia è : con quale procedimento gli
autori giungono a questo principio? Non si tratta di una mera
deduzione ?
2
Ciò è certamente accreditabile alla morale cristiana.
3 J.
Habermas, Ivi, p. 111